un albero che perde le foglie

In questo periodo di emergenza sanitaria legata alla diffusione del covid-19,

la ricerca scientifica farmaceutica potrebbe riorientare l’approccio nei confronti di diverse malattie grazie all’utilizzo di vaccini mRna.

Questa tecnologia verrà impiegata nel giro dei prossimi 5 anni per cercare di sviluppare vaccini antitumorali e sconfiggere malattie come l’HIV, è quanto dichiarato da Ugur Sahin e Ozlem Tureci, immuno-oncologi co-fondatori di BioNTech, l'azienda che ha sviluppato per Pfizer la propria versione del vaccino. Eppure, la cannabis, non ha ancora visto riconoscersi l’importanza terapeutica nonostante possa essere utile come terapia del dolore e nel trattamento di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson.

L’efficacia dei cannabinoidi contro il morbo di Alzheimer.

Il morbo di Alzheimer è un disturbo degenerativo che colpisce il cervello, è una patologia di tipo progressivo e invalidante che inizia solitamente dopo i 65 anni ma può manifestarsi precocemente tra i quaranta e i cinquanta. I sintomi possono presentarsi con tempistiche lente e variabili, ma che proseguono fino a compromettere in modo irreversibile la memoria dell’individuo. La malattia di Alzheimer è considerata una tipologia di demenza che investe le capacità mnemoniche del soggetto, compromettendone i ricordi, le abilità di comprensione, il pensiero e il comportamento personale. L’azione invalidante della malattia risulta costante e progressiva fino a interferire in modo grave sulla qualità della vita quotidiana del soggetto.

Nonostante gli studi e le ricerche, sono ancora poco conosciute le cause scatenanti di questa malattia. La scienza sta lavorando da tempo per identificare le cause di una forma di demenza così grave basandosi su alcuni test effettuati su pazienti ed esami clinici correlati. Di norma, si registra una correlazione tra la presenza di placche amiloidi nell’encefalo e ammassi neurofibrillari nel cervello e il manifestarsi di questa malattia. La formazione delle placche è dovuta a una proteina, che assume una struttura anomala e si deposita tra i neuroni formando una sorta di collante, rendendo difficoltose le comunicazioni tra i neuroni stessi. Un’altra proteina chiamata “Tau” è invece responsabile della creazione dei grovigli, detti anche aggregati neurofibrillari.

A livello preventivo, esistono alcune strategie per posticipare e ritardare nel tempo gli effetti più gravi del decadimento cognitivo, come per esempio modifiche allo stile di vita, ma la cui efficacia è ancora in fase di studio. Fatto sta che una continua stimolazione mentale, per esempio, può favorire un allenamento costante del cervello, affiancato da una dieta equilibrata e l’esercizio fisico.

La malattia attraversa diverse fasi nel suo avanzamento. I suoi primi sintomi si manifestano con la difficoltà nel ricordare dati e informazioni recenti e con il passare del tempo il paziente appare sempre più disorientato e confuso, soprattutto nel tentativo di ricordare dettagli su luoghi e persone.

  • La fase iniziale è caratterizzata da alcune difficoltà motorie legate ai movimenti, al linguaggio, con conseguenti difficoltà nel vestirsi, nello scrivere e nel coordinarsi.
  • La fase intermedia prevede una mancanza di indipendenza del paziente e sopraggiunge l’afasia che incide sul linguaggio e l’espressività e i volti familiari iniziano a confondersi e scomparire.
  • Finché, giunti all’ultima fase, il soggetto non è più indipendente e perde lentamente la parola. La capacità di movimento viene fortemente ridotta, mentre la morte sopraggiunge spesso per la concomitanza con altri fattori, come infezioni o patologie pregresse.

L’azione dei cannabinoidi.

La demenza causata dalla malattia di Alzheimer è caratterizzata dal punto di vista biochimico dall’accumulo di una particolare proteina, Beta amiloide (Aβ), all’interno delle cellule neuronali che ne determina la morte. Gli aggregati di Beta amiloide sono responsabili dell’alterazione dell’omeostasi cellulare che compromette la funzionalità della membrana cellulare, responsabile di un grave stress ossidativo. La proteina Aβ, si forma dalla deteriorazione di una proteina maggiore presente anch’essa nella membrana cellulare, detta Proteina Progenitrice dell’Amiloide (APP). Questa grossa proteina viene tagliata ad opera di particolari enzimi che generano la Aβ 1-42 e Aβ 1-40, di cui la prima è estremamente tossica per l’organismo.

Ma come possono essere utili i cannabinoidi nel trattamento di questa malattia? Il recente lavoro scientifico dal titolo “Destabilization of the Alzheimer’s amyloid-β protofibrils by THC: A molecular dynamics simulation study”, pubblicato sull’ultimo numero del Journal of Molecular Graphics and Modelling, ci dimostra come il THC riesca a disgregare gli agglomerati di Aβ. Il meccanismo d’azione è estremamente interessante e dimostra ancora una volta come la cannabis si ricca di risorse incredibili. Il THC si lega ad una subunità carboniosa della proteina Aβ con un particolare legame “idrofobo”. Questo particolare legame modifica la struttura stessa della Aβ innescando delle forze fisiche che fanno saltare dei punti di unione, detti ponti salini, che tengono insieme e ben piegata la Aβ. Una volta rotta la molecola di Aβ, i residui vengono aggrediti dai sistemi di difesa della cellula e vengono eliminati.

Sono molte le molecole che la chimica sta sviluppando per distruggere la Aβ, ma molte di queste presentano effetti collaterali. La cosa straordinaria è che la natura, attraverso la cannabis, ci dona una molecola che ha la capacità di distruggere questa proteina così tossica. All’azione del THC si aggiunge anche quella del CBD, che ha una azione ansiolitica e antidepressiva, necessarie per i pazienti che soffrono di malattia di Alzheimer (leggi qui). Il deterioramento cognitivo tipico di questo morbo non ha ancora purtroppo una cura definitiva; tuttavia, sono disponibili trattamenti che tentano di rallentarne la progressione. In quanto malattia degenerativa, essa comporta una condizione molto complessa sia per il paziente che per i familiari che lo accudiscono poiché, nelle fasi più avanzate, il malato può assumere atteggiamenti aggressivi e di agitazione psicomotoria.

L’utilizzo della cannabis terapeutica può essere utile anche in questo contesto, come visto negli articoli precedenti (leggi qui) può contenere lo stato di agitazione migliorando il sonno, stimolando l’appetito e migliorando l'equilibrio. L’esperienza clinica è spesso positiva con i pazienti trattati, il rapporto base dei cannabinoidi è di THC-CBD 1:1, perché è in genere ben tollerata dalle persone anziane. I risultati sono individuali e dipendono dalla condizione clinica all’inizio del trattamento e ovviamente dalla risposta del singolo. Affiancare un percorso nutrizionale adeguato è sempre consigliato e può dare risultati molto soddisfacenti, soprattutto nelle fasi precoci di malattia: i pazienti sono più gestibili, meno agitati e talvolta rispondono meglio ai trattamenti farmacologici, compresi i cannabinoidi.

Gary Wenk, professore di Neuroscienze, immunologia e genetica medica presso la Ohio State University, ha dichiarato al Time che nei suoi 25 anni di ricerche per combattere e prevenire le infiammazioni cerebrali che i cannabinoidi fossero la prima e unica classe di farmaci che siano mai stati efficaci nei trattamenti. Negli ultimi tempi, infatti, la ricerca scientifica si sta sempre più concentrando sulle potenzialità di diversi cannabinoidi, di trattare patologie neurodegenerative come parkinson e alzheimer.

Cannabis e declino cognitivo.

Le potenzialità dei cannabinoidi nel trattamento di malattie neurodegenerative arrivano anche da una pubblicazione scientifica su Nature Medicine (2017), grazie al lavoro dei ricercatori dell’Università di Bonn e della Hebrew University di Gerusalemme. Gli studiosi hanno somministrato piccole dosi di THC a topi di diverse età:

  • 2 mesi, quando sono ancora giovani;
  • 12 mesi, quando iniziano a manifestare segni di declino cognitivo;
  • 18 mesi, quando sono ormai anziani.

La ricerca ha dimostrato che: sia a 12 che 18 mesi di età, i topi che avevano ricevuto il THC hanno mostrato funzioni cognitive paragonabili a quelle dei giovani di soli due mesi. Mentre nel gruppo di controllo, gli animali a cui è stato somministrato il placebo, il declino cognitivo si è iniziato a manifestare come previsto intorno ai 12 mesi di età.
Tuttavia, sperimentazioni clinica sui pazienti non sono ancora state eseguite, come sottolinea il dottor Pasquale Striano, professore associato presso il Dipartimento di Neurologia dell’Università degli Studi di Genova. Ad oggi l’unica patologia neurologica per la quale ci sono dati e la sperimentazione di un farmaco è l’epilessia. Nel 2020 però, la MGC Pharmaceuticals ha iniziato a collaborare con l’Università di Notre Dame a Perth, in Australia, annunciando una sperimentazione su 50 pazienti affetti da demenza e morbo di Alzheimer con un farmaco, chiamato CogniCann, che contiene THC e CBD in rapporto 3:2.

«Se avrà successo, CogniCann ha il potenziale per avere un impatto positivo sulla vita dei pazienti e di chi li assiste in tutto il mondo e contribuire a una nuova strada di ricerca e sviluppo clinico per affrontare le sfide degli effetti della demenza e del morbo di Alzheimer»

ha sottolineato Roby Zomer, co-fondatore e amministratore delegato di MGC Pharma.

Le difficoltà nel reperire la cannabis terapeutica.

In Italia la cannabis terapeutica è stata introdotta nel 2007, con la possibilità da parte dei medici di prescrivere il THC, poi dal 2013 è stato esteso anche ai derivati; tuttavia, nel 2021 la situazione per i pazienti resta molto complessa. Esiste una legge, ma non la volontà politica di risolvere i problemi che si riflettono su questa categoria di pazienti, sulla continuità terapeutica delle loro cure e sulla loro qualità di vita.I problemi principali per i pazienti italiani sono tre:

  • il primo è che il fabbisogno dei pazienti è costantemente sottostimato dalle nostre istituzioni, attualmente l’unico autorizzato a produrre è l’istituto militare farmaceutico di Firenze che produce da 150-200 kg l’anno che ovviamente non coprire il fabbisogno interno italiano, la conseguenza è l’importazione dall’estero con tutti i costi che ne comporta e comunque non sufficiente. Il fabbisogno stimato secondo l’INCB, organo internazionale per il controllo degli stupefacenti, in Italia per il 2021 è di circa 3 tonnellate. Anche se a fine mese di ottobre è datato dichiarato dal sottosegretario alla Salute in una puntata di Mi manda Rai Tre, Andrea Costa:

«Stiamo varando dei bandi che diano la possibilità di coltivare anche ad aziende private e pubbliche per raggiungere l’obiettivo di essere autosufficienti dal punto di vista della produzione. E’ un tema che stiamo affrontando con il ministero dell’Agricoltura e dell’Interno, siamo a un buon punto del percorso e quindi io confido che nelle prossime settimane si possano avviare questi bandi che creano le condizioni per aumentare la produzione nel nostro Paese».

Potrà forse essere un primo tentativo per arginare il problema o il solito fuoco di paglia? Il riferimento è ovviamente alla continua carenza di cannabis medica che da anni affligge i pazienti che necessitano di questo tipo di cure. Si parla di potenziali bandi dal 2017 quando nel decreto di bilancio venne inserita la possibilità di aprire la produzione di cannabis medica ad aziende private, senza che il provvedimento fosse poi diventato effettivo. Nell’estate del 2018 l’allora ministro della Salute Giulia Grillo, aveva aperto alla produzione di cannabis da parte di aziende private, senza che poi si concretizzasse questa possibilità. Ora secondo Costa, bisogna

«dare risposte in tempi certi ai cittadini che possono essere curati con la cannabis, indipendentemente da dove risiedano»

ha aggiunto rispetto alle differenze da regione e regione per l’accesso a queste cure. Vi sarebbe anche la possibilità di ottenere prescrizione telematica, ma che è un tema sul quale stanno ancora discutendo al ministero e non si sa effettivamente attuabile.

  • Il secondo problema è dato dalla gestione regionale della sanità: le regioni purtroppo ragionano di testa propria e quindi ve ne sono alcune che hanno implementato la legge, garantendo ad esempio la prescrizione a carico del servizio sanitario per una serie di patologie, altre che prevedono la dispensazione gratuita solo per alcune, e altre ancora che non la prevedono proprio. Quindi, semplicemente in base al luogo di residenza, ci sono pazienti privilegiati che accedono alle cure gratuitamente ed altri no, spendendo dai 300 agli oltre 1000 euro al mese. In passato hanno cercato di risolvere il problema inserendo nella legge di bilancio un emendamento apposito, che prevedeva la prescrizione a carico del sistema sanitario, ma non è mai entrato in vigore.
  • Ultimo problema ma non meno importante è il basso numero di medici che conoscono e prescrivono la cannabis (circa 2-300 su oltre 200mila) e di farmacie che effettuano questo tipo di preparazione: secondo i dati del ministero della Salute nel 2019 su circa 19mila farmacie presenti in Italia, sono state poco più di 400 quelle che hanno effettuato almeno una preparazione a base di cannabis.

Fonti

 Clinn

il fatto quotidiano

science direct

cannabisterapeutica.info

mdp

skytg24

zoe's seeds

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